
Dopo i casi dei mesi scorsi che hanno coinvolto Armani, Dior e Alviero Martini, questa volta sotto i riflettori รจ finito Valentino. Il Tribunale di Milano, nel corso di unโindagine sullo sfruttamento lavorativo nella filiera produttiva del marchio, ha disposto lโamministrazione giudiziaria per Valentino Bags Lab Srl, societร controllata direttamente da Valentino Spa. Le accuse non sono di sfruttamento โdirettoโ, ma di omissione di controllo e โmodelli organizzativi inadeguatiโ. Ignorando quanto accadeva nelle societร subappaltatrici, senza effettuare i dovuti controlli e le necessarie verifiche delle condizioni di lavoro, la societร si sarebbe resa complice. Quella di mettere la testa sotto la sabbia รจ dโaltronde una strategia diffusa tra i marchi: per ridurre al massimo i costi e aumentare i profitti, si appaltano i lavori ad aziende che sfruttano la manodopera, poi, quando la vicenda viene a galla, la grande casa di turno afferma sistematicamente che non ne sapeva nulla e che non รจ colpa sua se il committente รจ uno sfruttatore.
Lโinchiesta, infatti, ha messo in luce una filiera in cui aziende subappaltatrici erano gestite da imprenditori cinesi che impiegavano manodopera in condizioni ben oltre il limite dellโumanitร : senza contratti, senza alcuna tutela, con turni lunghissimi e stipendi ben al di sotto del minimo legale, il tutto in ambienti privi delle piรน fondamentali norme di sicurezza.
Frammentare allโinfinito la catena produttiva, fingendo di non sapere dove (e come) siano prodotti i propri capi o accessori, non รจ piรน credibile per una casa di moda con fatturati da oltre un miliardo e mezzo di euro, gestita da una holding (Qatar Mayhoola Investment). Ma, in generale, non รจ piรน ammissibile a nessun livello di questo sistema, ormai al collasso, chiamato Moda.
Facendo finta di non vedere, si รจ comunque complici. E questa cecitร volontaria non sta portando a nulla di buono o costruttivo. Anzi. Le torri dโavorio stanno crollando sotto il loro stesso peso, mostrando a tutti il re. Nudo.
Un punto di non ritorno, iniziato negli sweatshop agli inizi del โ900, e che si sta perpetuando fino ai nostri giorni a tutti i livelli: il sistema moda, ormai, รจ un colabrodo. La filiera produttiva italiana รจ messa malissimo, con sempre piรน aziende costrette a ricorrere agli ammortizzatori sociali, quando non addirittura a chiudere; quelle che sopravvivono lo fanno costantemente strozzate dai loro committenti, che ancora non si vergognano di giocare al ribasso contrattando sui centesimi di euro mentre evadono il fisco. Subappalti opachi, controlli inesistenti, lavoratori invisibili. Storiche realtร , fiori allโocchiello di quello che una volta era lโorgoglio del Made in Italy, abbandonate e dimenticate da tutti, soprattutto da quella politica che dovrebbe impiegare risorse per risollevare il settore, ma che praticamente รจ assente. Il tutto mentre si punta il dito solo sul fast fashion, responsabile sรฌ di danni ambientali e disuguaglianze sociali, ma come tutti gli altri.
Eppure, lo show deve andare avanti. E mentre sfilano le collezioniย cruiseย in piazze improbabili (come quella di Santo Spirito, sottratta ai cittadini di Firenze e messa in vendita per un discutibile defilรฉ di Gucci),ย la stampa di settore distrae con gossip sullโennesimo giro di direttori creativiย โ anche questo un chiaro sintomo di marchi in crisi che non sanno piรน a chi appellarsi per rianimare le vendite โ mentre le fondamenta tremano a colpi di inchieste, controlli, confessioni e testimonianze di chi non ne puรฒ piรน di questa ipocrisia diffusa. Ed รจ pronto a gridare al mondo che la moda, senza etica e senza giustizia, non puรฒ piรน andare avanti. Un sistema nuovo potrร rinascere, sรฌ, ma solo sulle ceneri di quello precedente.