
Quando si cerca di indovinare com’è fatto un piatto, il pensiero corre agli ingredienti essenziali che lo compongono. Quante uova? Che tipo di farina? Grana o Parmigiano? Ma c’è un’altra lista, invisibile e fondamentale, di cui raramente si parla. È fatta di persone e di ingranaggi: l’agricoltore, il bracciante, la cooperativa, il trasportatore, il magazzino, il supermercato. È questa la vera ricetta del nostro cibo. In cui però qualcosa non torna: alcuni ingredienti vengono pagati troppo poco, sfruttati troppo spesso, dimenticati troppo facilmente.
Lo racconta il nuovo rapporto “Gli ingredienti del caporalato – Il caso del Nord Italia” dell’associazione Terra!, realtà che studia il fenomeno dal 2013. Un’indagine che mette sotto la lente una delle filiere agroalimentari più redditizie e prestigiose del nostro Paese, quella vitivinicola rispettivamente in Piemonte, in Friuli-Venezia Giulia e in Veneto. Leggendo le 140 pagine si scopre che anche qui, dietro un bicchiere di spumante o una bottiglia di Prosecco, può nascondersi lo spettro dello sfruttamento.
Il prezzo del cibo (e quello che non si vede)
Per ogni cento euro che spendiamo al supermercato, solo 1,50 euro finiscono nelle tasche dell’agricoltore. Se si tratta di cibo fresco, si arriva a malapena a sette euro. Il grosso della spesa – secondo i dati Ismea – va a finire nella logistica e, soprattutto, nella grande distribuzione organizzata (Gdo), il supermercato. Ed è proprio qui che si annida una delle distorsioni strutturali della filiera agroalimentare italiana, già denunciata nel libro “Il grande carrello”, di Fabio Ciconte, direttore di Terra!, e del giornalista d’inchiesta Stefano Liberti: il potere di determinare i prezzi non è in mano a chi produce, ma a chi vende.
«Il problema è che decide tutto la Gdo, quindi sono obbligato a vendere al di sotto del prezzo di produzione. Il mio ricavo è zero», racconta un produttore intervistato da Terra!. E se a guadagnare sono sempre gli stessi, qualcuno, inevitabilmente, paga il prezzo: i lavoratori.
Il vino piemontese e i nuovi schiavi invisibili
Nel cuore delle Langhe, tra filari di Nebbiolo e di Moscato, il lavoro stagionale è essenziale. Ogni anno servono tra i 4.000 e i 5.000 addetti per potatura, raccolta e lavorazione. Ma solo una piccola parte – il 30-40 per cento – viene assunta direttamente dalle aziende agricole. Il resto è affidato a cooperative, spesso “spurie”, senza terra, che reclutano manodopera tra migranti appena arrivati, ospitati nei Cas (Centri di Accoglienza Straordinaria), poco consapevoli dei propri diritti e facili da ricattare.
Gli stipendi sono bassi, le giornate lunghissime, le condizioni abitative precarie. E chi si lamenta viene sostituito in fretta. Padroni incontrati alla stazione, salari in nero, trattenute ingiustificate per trasporto e vitto: sono questi gli ingredienti che non compaiono in etichetta, ma che concorrono a farci arrivare in tavola una bottiglia pregiata a un prezzo competitivo.
La trappola del lavoro grigio
Un’altra forma insidiosa di sfruttamento è il cosiddetto lavoro grigio: formalmente registrato, ma solo in parte. Il lavoratore risulta assunto per 180 giornate – il minimo per accedere alla disoccupazione agricola – ma lavora ben oltre. Il datore di lavoro paga meno tasse e tiene il dipendente in pugno. E così, mentre il sistema guadagna, il lavoratore resta intrappolato in una condizione di precarietà costante.
Non solo Sud, non solo filiere povere
Il report di Terra! smonta un altro grande mito: che il caporalato sia solo una piaga del Sud o delle produzioni a basso valore. Il caporalato è ormai una componente sistemica del settore agricolo italiano, presente anche nelle regioni più ricche e nei comparti più redditizi. In Lombardia – regione leader con 14 miliardi di euro nel settore agroalimentare – le denunce per sfruttamento non mancano. E lo stesso vale appunto per il Veneto, il Friuli e il Piemonte.
Il caporalato non ha bisogno di ghetti. Può prosperare anche nei vigneti ordinati e nei paesaggi da cartolina, dietro cooperative di facciata e contratti irregolari. È un fenomeno che si insinua là dove la filiera è lunga, il potere sbilanciato, la manodopera fragile.
Il caso del Friuli-Venezia Giulia tra rotta balcanica e reclutamento opaco
Il Friuli-Venezia Giulia rappresenta un osservatorio unico sullo sfruttamento nel settore agricolo, in quanto regione di approdo della rotta balcanica. I flussi migratori, uniti al progressivo abbandono delle campagne da parte della manodopera locale, hanno trasformato radicalmente il mercato del lavoro agricolo. Un tempo basato su lavoratori stabili, studenti e pensionati, oggi il settore si regge su immigrati, richiedenti asilo e rifugiati, spesso reclutati da cooperative e imprese individuali che operano in zone grigie della legalità.
Nelle province di Pordenone e Gorizia, molti imprenditori agricoli si affidano a intermediari per le operazioni stagionali di potatura, vendemmia e lavorazioni manuali, spesso stipulando accordi “a corpo” o “ad ettaro”, senza legami diretti con i singoli lavoratori. Le indagini della Guardia di Finanza di Pordenone hanno portato alla luce numerosi casi di lavoro nero, in crescita costante: da 87 casi nel 2022 a 254 nel 2024. Il problema non è solo la paga misera, ma anche le condizioni di vita: la carenza di alloggi, i pregiudizi verso gli stranieri, e la difficoltà di accedere a un’abitazione dignitosa aggravano la vulnerabilità dei lavoratori.
Il Veneto tra monocoltura e manodopera fragile
Il Veneto è la prima regione italiana per export vinicolo, con il Prosecco a trainare un comparto che vale miliardi. Ma anche in questo caso, sotto il luccichio delle bollicine, si celano dinamiche di sfruttamento e precarietà. Con 93.061 ettari di superficie vitata e 2,82 miliardi di euro di esportazioni nel 2023, il settore vitivinicolo veneto è un colosso che poggia su una manodopera per lo più straniera, temporanea e spesso invisibile.
L’impennata della coltivazione di Glera – il vitigno base del Prosecco – ha provocato un’espansione incontrollata della monocoltura, con gravi ricadute ambientali (uso massiccio di pesticidi) e sociali. Le aziende non riescono a coprire con la forza lavoro locale i picchi di attività, soprattutto durante la vendemmia, e ricorrono sempre più spesso a cooperative o all’esternalizzazione del lavoro, senza garanzie per i lavoratori. In molti casi, si assiste a un sistematico sottopagamento e alla negazione dei diritti più basilari.
Anche in Veneto, come già osservato in Piemonte e Friuli, il potere della Gdo si traduce in una corsa al ribasso dei prezzi, con effetti a cascata su tutta la filiera. Un prodotto globalizzato come il Prosecco ha bisogno di rimanere competitivo: chi ne paga il prezzo, anche qui, sono i lavoratori e l’ambiente.
Focus Lombardia: meloni, IV gamma e suini nel mirino del caporalato
Non solo vino. In Lombardia – regione leader dell’agroalimentare con oltre 14 miliardi di euro di valore – lo sfruttamento della manodopera riguarda anche altri comparti. Il precedente rapporto dell’associazione Terra!, “Cibo e sfruttamento. Made in Lombardia”, ha evidenziato come anche nelle produzioni di meloni, nel settore della IV gamma (frutta e verdura pronte al consumo) e in quello suinicolo si registrino gravi irregolarità.
Lavoratori impiegati per molte più ore di quanto risultino nei contratti, pagati con salari da fame e spesso alloggiati in condizioni indegne, sono la norma in molte aziende. Le cooperative spurie, già citate nei casi del Nord-Est, sono presenti anche qui, con meccanismi ben oliati di intermediazione opaca e responsabilità diffuse. Il caporalato non è un fenomeno isolato ma una struttura parallela, che si inserisce perfettamente nella logica di una filiera lunga, opaca e diseguale.
Quanto costa davvero un piatto?
Il nostro sistema alimentare si regge su un equilibrio ingiusto. I costi ambientali – emissioni, consumo di suolo, inquinamento – e quelli sanitari – legati alla qualità del cibo e alle condizioni di lavoro – non entrano nel conto. Restano esternalità, voci invisibili che paghiamo tutti in un secondo momento, spesso senza accorgercene.
Allora la domanda non è più solo quanto costa un prodotto, ma chi lo sta pagando davvero? Se un grappolo d’uva o un cestino di fragole costano troppo poco, è molto probabile che qualcuno, lungo la filiera, stia pagando al posto nostro: con la sua fatica, con la precarietà, con i propri diritti negati.
Dalla denuncia alle proposte
Per questo Terra!, oltre a documentare, propone. Nel Policy Brief allegato al rapporto, l’Ong formula proposte concrete per contrastare il caporalato, a partire dalla Lombardia, regione pilota del progetto di advocacy pubblica. Serve un riequilibrio della filiera, maggiore trasparenza sui prezzi, controlli più efficaci sulle cooperative spurie, e soprattutto un sistema che premi chi lavora in modo etico.
Verso un’etica del gusto
Se la gastronomia vuole davvero raccontare il cibo, non può più limitarsi a parlare di sapori, profumi e tradizioni. Deve iniziare a raccontare anche da dove viene quel cibo, chi lo ha raccolto, in quali condizioni. Perché il gusto non può essere separato dall’etica. E il vero ingrediente segreto di ogni piatto – quello che oggi manca – è la giustizia.
https://www.linkiesta.it/2025/05/caporalato-agroalimentare-nord-italia/