
Negli ultimi anni la procura di Milano ha aperto decine di inchieste che hanno denunciato molti casi di evasione fiscale e soprattutto lo sfruttamento strutturale dei lavoratori nelle aziende della logistica, uno dei settori dell’economia italiana cresciuti di più spesso a scapito dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici. Come ha scritto domenica il Sole 24 Ore, dal 2021 la sola procura milanese ha recuperato 438 milioni di euro di tasse non pagate e ha ordinato la regolarizzazione di circa 10mila lavoratori. Nessuna grande azienda è stata risparmiata dalle inchieste.
Secondo le stime del ministero del Lavoro, nelle oltre 100mila imprese della logistica che operano in Italia lavorano oltre 1,5 milioni di persone. Il fatturato complessivo supera i 110 miliardi di euro all’anno, in deciso aumento soprattutto grazie alle limitazioni degli spostamenti durante la pandemia da coronavirus, che hanno causato una crescita notevole dei prezzi delle spedizioni.
Oggi l’organizzazione delle aziende permette di far arrivare ogni giorno centinaia di migliaia di pacchi nelle case di tutta Italia, nel giro di pochi giorni dall’ordine e in alcuni casi di poche ore. Le piattaforme sono costruite a misura di consumatore grazie a una rete di magazzini sempre più estesa e a un sistema di consegne piuttosto rapido. Ogni passaggio viene controllato per rispettare i tempi stabiliti e garantire la soddisfazione del cliente.
Le aziende riescono a garantire questi servizi a prezzi bassi esternalizzando il lavoro. Nel 2003 la legge Biagi riformò il sistema di tutele previsto dalla legge contro il caporalato, la 1369 del 1960: da allora le aziende si sono affidate a una catena appalti e subappalti formata da cooperative, mini appaltatori e microaziende che applicano contratti con un costo del lavoro molto più basso rispetto al contratto collettivo nazionale.
Negli anni sono stati denunciati centinaia di casi di sfruttamento nei livelli più bassi dell’organizzazione, cioè nelle cooperative, definite dalla procura di Milano «serbatoi di lavoratori». In queste aziende, formate da poche persone, e in cui raramente si vedono i responsabili, gli stipendi vengono pagati con indennità di trasferta, esente da tasse, senza che il lavoratore si sia mai spostato dal magazzino. Oppure si ricorre al metodo del falso part time: su dieci o dodici ore al giorno lavorate, in busta paga ne compaiono quattro o cinque.
Nella catena degli appalti le responsabilità sociali sono diluite e i lavoratori, la maggior parte immigrati, sono più deboli, con poche possibilità di rivendicare i propri diritti. In generale i lavoratori sono costretti a ritmi di lavoro estenuanti, approfittando del fatto che nella maggior parte dei casi si tratta di persone in condizioni di difficoltà che hanno bisogno di lavorare.
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Alcuni lavoratori della logistica intervistati dal Post nel 2021 a Bologna
I casi di sfruttamento erano così tanti che la procura di Milano ha deciso di seguire un nuovo metodo per portare avanti le indagini: non più dal basso verso l’alto, cioè dalle cooperative alle aziende, ma dall’alto verso il basso. In questo modo gli investigatori non hanno perso tempo dietro a prestanome difficili da trovare e hanno potuto puntare direttamente ai beneficiari finali, cioè i grandi gruppi che sfruttano questo sistema.
Solo a Milano negli ultimi quattro anni sono state aperte 13 inchieste principali che hanno coinvolto tutte le aziende più grandi, tra cui Amazon, DHL, BRT, Esselunga, UPS e da ultima FedEx.
Come ha scritto il Sole 24 Ore, la procura accusa le aziende di «gravi condotte che agevolano lo sfruttamento dei lavoratori e che determinano concorrenza sleale». I livelli dell’organizzazione sono essenzialmente tre: nel primo ci sono appunto le cooperative e nel secondo società che commissionano il lavoro alle cooperative e funzionano da filtro per il terzo e ultimo livello, cioè le grosse società di logistica. Secondo le inchieste, le grandi aziende sfrutterebbero questo sistema per controllare comunque direttamente i lavoratori, senza però garantire loro i diritti minimi.
Con meno tutele e diritti diminuisce anche la sicurezza sul lavoro, e la certezza del contratto non esiste. Negli ultimi anni le grandi aziende hanno potuto aprire e chiudere magazzini senza troppi problemi, lasciando alle cooperative l’incombenza dei licenziamenti. Spesso i lavoratori sono stati avvisati del licenziamento via WhatsApp o via email. In un settore così frammentato le istituzioni non riescono quasi mai a intervenire anche perché le grandi aziende rifiutano sistematicamente di presentarsi ai “tavoli di crisi”, come vengono chiamati gli incontri in cui si cerca di trovare una soluzione ai licenziamenti.